
Quando il potere era femminile: la lezione dimenticata delle donne Cherokee
Nel cuore del Sud-Est degli Stati Uniti, prima che le mappe venissero ridisegnate dai coloni europei, viveva una società che sfidava radicalmente le logiche patriarcali dell'Occidente.
Era la Nazione Cherokee. E al centro di quel mondo non c'erano imperatori, né padri-padrone. C'erano le donne. In quella cultura matrilineare, il potere non era un privilegio maschile. I figli prendevano il clan dalla madre, i beni passavano da donna a donna, e il matrimonio era un contratto che poteva essere sciolto con un gesto semplice e simbolico: mettere gli oggetti del marito fuori dalla porta. Nessuna scenata, nessuna umiliazione. Solo autodeterminazione. E rispetto. Un altro mondo è esistito. E può esistere ancora.
Le donne che guidavano, non solo accudivano
Le Cherokee non erano solo madri, ma leader. Alcune erano "Ghigau" – Donne amate – con poteri religiosi, morali e politici. Potevano parlare nei consigli tribali, decidere il destino dei prigionieri, influenzare guerre. Nancy Ward, una delle più celebri, trattò direttamente con i leader coloniali durante la Rivoluzione Americana. Era una diplomatica, una stratega, una voce autorevole. Questa realtà sconvolse i coloni europei. James Adair, viaggiatore del XVIII secolo, definì con disprezzo la società Cherokee come un "governo in gonne". Non riusciva a concepire che il potere potesse essere femminile, condiviso, non gerarchico. E così, come spesso accade nella storia, ciò che non si comprende si tenta di distruggere.

L'imposizione del patriarcato occidentale
Con l'arrivo degli Stati Uniti, le strutture patriarcali furono imposte con forza. Solo i capi maschi vennero riconosciuti, la proprietà privata fu assegnata agli uomini, e le donne furono escluse dai trattati ufficiali. I missionari cristiani insegnarono la sottomissione femminile come virtù. Il sistema matrilineare fu smantellato, pezzo dopo pezzo.
Questa non è solo una storia di colonizzazione. È una storia di cancellazione culturale. Di come l'Occidente, nella sua presunta superiorità, abbia sistematicamente rifiutato modelli alternativi di società. Di come abbia confuso il dominio con l'ordine, la subordinazione con la civiltà.
Una riflessione per l'oggi
Oggi, quando una donna viene zittita "perché così si è sempre fatto", quando il potere femminile viene ridicolizzato, quando la leadership femminile viene vista come eccezione e non come possibilità, possiamo ricordare le Cherokee.
Possiamo ricordare che il patriarcato non è inevitabile. È una costruzione. E come ogni costruzione, può essere decostruita.
L'Occidente ha sbagliato. Ha imposto un modello unico, escludente, violento nella sua presunta neutralità. E continua a sbagliare ogni volta che ignora le voci che propongono alternative. Ogni volta che confonde la tradizione con la prigione.
Altri mondi sono esistiti. E possono esistere ancora.
La storia delle donne Cherokee non è solo memoria. È possibilità. È un invito a immaginare società dove il potere non è dominio, ma cura. Dove il rispetto non è subordinazione, ma riconoscimento. Dove le donne non devono lottare per essere ascoltate, perché sono già al centro. E forse, il futuro non è da costruire da zero. Ma da ricordare.

Un universo di relazioni, non di confini
I Cherokee non si definivano attraverso una nazione, ma attraverso legami. Non c'erano confini da difendere, ma antenati da onorare. Si chiamavano Ani-Yun-wiya, il Popolo Principale, e vivevano al centro di un universo spiritualmente vivo, composto da tre mondi intrecciati: quello degli esseri umani, quello degli spiriti superiori e quello sotterraneo, fertile e pericoloso. Ogni gesto quotidiano – dalla semina al lutto – era parte di un rituale cosmico per mantenere l'equilibrio tra questi mondi. Non si trattava di superstizione, ma di responsabilità. La disarmonia non era solo un problema sociale: era una minaccia spirituale.
Questa visione si rifletteva anche nel rapporto con la terra. Dove l'Occidente vedeva risorse da sfruttare, i Cherokee vedevano un organismo vivente, da rispettare e condividere.
La terra non era proprietà privata, ma bene comune. Una casa si costruiva dove non c'erano altre, e quando veniva abbandonata, tornava alla comunità. Era un sistema che rifiutava l'accumulo, e abbracciava il riciclo delle opportunità.
La loro società era fondata su clan e discendenza matrilineare, come detto prima. I diritti passavano dalle madri, e i matrimoni dovevano avvenire fuori dal proprio clan, per evitare l'incesto. Le decisioni non erano individuali, ma collettive. Gli anziani conciliavano, i consigli decidevano, e persino la vendetta di sangue – pratica oggi inaccettabile – aveva una funzione spirituale: liberare l'anima del defunto e ristabilire l'ordine cosmico.
Questa era una civiltà che non separava il sacro dal quotidiano, né l'individuo dalla comunità. E quando l'Occidente arrivò con le sue leggi, i suoi confini, le sue proprietà, non vide un popolo. Vide un ostacolo. E lo cancellò.
Ma non del tutto.
Perché ogni volta che ci chiediamo se esista un altro modo di vivere, possiamo guardare ai Cherokee. E ricordare che l'equilibrio non è utopia. È memoria.

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